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2. Lo sciopero del pane 2017-04-18T18:03:39+00:00

Lo sciopero del pane 

P.le Bertozzi / Via Imbriani

Seconda guerra mondiale. Anni di miseria e razionamento alimentare: la decisione del regime fascista di inserire il pane tra i generi acquistabili con la tessera annonaria fu accolta con profonda esasperazione.

E così, Il 16 ottobre 1941 un gruppo di donne dell’Oltretorrente assaltò un furgone della ditta Barilla che stava transitando in via Imbriani carico di pane, e ne distribuì il contenuto alla popolazione. La stessa cosa era avvenuta, poco prima, in un altro quartiere della città, ai “capannoni” di via Venezia, dove centinaia di famiglie ‒ qui trasferite dopo l’abbattimento di molti borghi ‒ vivevano in condizioni miserevoli.

Non sappiamo esattamente quante fossero queste donne infuriate e ribelli, probabilmente qualche centinaio. Le relazioni di polizia, infatti, parlano di «una ciurma» di popolane scalmanate, descritte per lo più come donne dal temperamento collerico, di scarse o nulle capacità intellettuali e quindi, per una facile deduzione, anche di scarsa moralità

Ciò che quelle carte non dicono ‒ e che invece si può facilmente immaginare ‒ è la profondità della loro esasperazione che, dopo l’assalto ai furgoni, noncuranti della severità della repressione, le spinse a proseguire la propria rivolta con una dimostrazione che coinvolse presto altre donne, molte delle quali operaie dei vari stabilimenti che avevano sede nelle strade dell’Oltretorrente.

Tutte insieme, in corteo, attraversarono il ponte di Mezzo per giungere, attraverso il Lungoparma, al palazzo della Prefettura, dimostrando alle autorità fasciste le dimensioni del dissenso sociale che cresceva in città. Anche per questo immediata e dura fu la riposta: dispersa la folla con gli idranti, diverse donne furono arrestate e condotte nel carcere di San Francesco dove alcune, come Ester Cabassi o Maria Zaccarini, vennero detenute molte settimane.

La protesta delle donne d’Oltretorrente dell’ottobre 1941, conosciuta come “sciopero del pane”, fu preceduta di una settimana dal conferimento della “Spiga d’oro” a Parma, un premio nazionale istituito dal regime fascista all’inizio dell’anno per la città produttrice del maggior quantitativo di grano.

La cerimonia si era svolta l’8 ottobre alla presenza di Benito Mussolini, nell’aia di una fattoria a sud di Parma. Il “duce” percorse poi la città tra una folla che le cronache del tempo restituiscono gremita ed esultante, anche se la testimonianza di diverse donne conferma il disagio provato nell’essere costrette a partecipare acclamanti a quella manifestazione, in un momento per tutti drammaticamente aggravato dalle privazioni imposte dalla guerra.

Dieci giorni prima, inoltre, nonostante le precedenti promesse di Mussolini, era giunta la notizia del razionamento del pane, il che significava meno cibo da portare in tavola.

La sensazione di irrisione e di disinteresse da parte del regime verso i bisogni delle classi popolari fu forte, e provocò la reazione immediata delle donne dei “capannoni” e dei borghi, dove la miseria e la fame si facevano sentire più che in altre parti della città.

La loro protesta assunse dapprima le forme della rabbia istintiva, come un moto che sale dalle viscere e spinge all’assalto. Poi si trasformò in una dimostrazione decisa a mostrarsi e a farsi ascoltare. L’obiettivo, come tante volte in passato, erano le autorità, il prefetto, dal quale pretendere misure contro il razionamento e al quale ostentare l’irruenza del proprio crescente dissenso.

In questo senso, dunque, la protesta delle donne del 1941 continuava idealmente la tradizione dei tumulti popolari legati al costo del pane che, dalla seconda metà dell’Ottocento, avevano scompigliato più volte la vita cittadina. Disordini che, come in gran parte d’Europa, erano quasi sempre stati provocati e animati da donne, madri di famiglia, massaie o giovani lavoratrici. Donne che insorgevano quando i prezzi aumentavano, perché a loro spettava il compito di mettere insieme il pranzo con la cena, la cura della casa, dei figli, della famiglia; donne che sorvegliavano i mercati, che tenevano a bada i fornai e che incarnavano «il diritto del popolo al pane quotidiano». Donne che, appena si delineava un aumento, cominciavano a bisbigliare, a diffondere voce per le vie, i cortili, i quartieri. Donne che si passavano parola e insorgevano, pretendendo dall’autorità che fosse ristabilito, di volta in volta, un giusto prezzo e, con esso, il legittimo ordine delle cose, spesso turbato dall’interesse e dalle speculazioni di mercanti e fornai.
Era accaduto ad esempio nel 1874, quando, per due giorni, folle di donne avevano invaso l’atrio del palazzo comunale e avevano interrotto il mercato dei cereali riuscendo, con le loro grida anche se presto silenziate da squadroni di cavalleria, a far cedere i fornai.
E successe molte altre volte, per lo meno fino al 1898, quando la nuova grande protesta per il pane ‒ estesa in gran parte d’Italia ‒ a Parma aveva coinvolto centinaia di donne più o meno giovani. Ma come spesso era accaduto, anche quella volta le loro legittime proteste, erano state represse con la forza, da truppa e carabinieri, e molte di loro erano finite con i polsi legati.
Ora, in pieno regime fascista e in pieno conflitto mondiale, la richiesta di pane non poteva non legarsi anche all’opposizione alla guerra, come se la parola “pane” contenesse in sé anche la parola “pace”. Per quanto l’Italia fosse entrata nel conflitto soltanto da un anno e mezzo, molte famiglie ne erano già esasperate.

Le testimonianze raccolte sui fatti di quei giorni restituiscono l’immagine di donne sole, costrette a lavorare per mantenere i vecchi e i figli, a destreggiarsi per procurarsi ogni giorno qualcosa da mangiare, e a mantenere chiusa dentro di sé l’angoscia per gli uomini al fronte. Donne però che, in quel periodo difficile e doloroso, seppero dar corpo a una rabbia da molti anni silenziosa, nonostante il modello femminile imposto dal regime le volesse mogli e madri ubbidienti e nonostante la durezza della repressione fascista.

Repressione che non si fece attendere: per quanto il questore Francesco Spanò avesse minimizzato l’accaduto, riferendo che non si era trattato d’altro che di una “chiassata” di «quattro donnette isteriche», dopo avere disperso la manifestazione, la polizia si mise sulle tracce di chi aveva osato ribellarsi.

Alcune donne vissero la prigione come un’onta, una vergogna mal associabile al ruolo remissivo che la società fascista imponeva alle signore per bene e forse cercarono poi di dimenticare quell’episodio. In altre, invece, la certezza di essersi battute contro un’ingiustizia, e l’orgoglio di aver alzato la testa contro la dittatura, accrebbero consapevolezza politica che si sarebbe trasformata, qualche anno più tardi, in impegno convinto nelle file della lotta partigiana.

  • Centro studi movimenti (a cura di), Una stagione di fuoco. Fascismo Guerra Resistenza nel Parmense, Fedelo’s, Parma 2015.
  • Margherita Becchetti, Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma 1868-1915, DeriveApprodi, Roma 2013.
  • Massimo Giuffredi (a cura di), Nella rete del regime. Gli antifascisti parmensi nelle carte di polizia (1922-1943), Carocci, Roma 2004.
  • Marco Minardi, Ragazze dei borghi in tempo di guerra : storie di operaie e di antifasciste dei quartieri popolari di Parma, Istituto storico della resistenza, Parma 1991.
  • Miriam Mafai, Pane nero. Donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Mondadori, Milano 1987.
  • Bianca Guidetti Serra (a cura di), Compagne. Testimonianze di partecipazione politica femminile, Einaudi, Torino 1977.
  • Franca Pieroni Bortolotti. Le donne della Resistenza antifascista e la questione femminile in Emilia (1943-1945), Vangelista, Milano 1978, pp. 7-21.