La resistenza contesa

Memorie e rappresentazioni dell’antifascismo nei manifesti politici degli anni Sessanta e Settanta

I manifesti che compongono questo percorso documentario mostrano le diverse rappresentazioni dell’antifascismo e della Resistenza propagandate con finalità e significati diversi – ma utilizzando spesso un medesimo codice espressivo – dai partiti democratici tradizionali e dai nuovi movimenti antagonisti negli anni Sessanta e Settanta. Si tratta di un periodo piuttosto ampio e complesso della storia dell’Italia repubblicana, nel quale la memoria antifascista e partigiana venne recuperata e attualizzata politicamente in modi diversi, spesso conflittuali.

La mostra è disponibile al noleggio

L’esposizione conta 36 manifesti (70×100 cm) organizzati in sei sezioni tematiche, ognuna introdotta da un approfondito apparato critico. Ogni pannello, oltre ad essere di materiale infrangibile, incorniciato e pronto per essere facilmente appeso, è accompagnato da una didascalia. Alla mostra sono di corredo locandine prestampate per pubblicizzare in ogni città luogo e orari di esposizione e pieghevoli illustrativi.

Disponibile è anche un volume-catalogo che raccoglie i testi di un seminario sugli stessi temi svoltosi a Parma nell’ottobre 2002 cui parteciparono Gloria Bianchino, William Gambetta, Diego Melegari, Antonio Parisella e Andrea Rapini.

La resistenza contesa

Presentazione del libro a cura di Diego Melegari e Ilaria La Fata

(Punto rosso, Milano 2004)

3 giugno 2005
Libreria Fiaccadori
Strada al Duomo, 8 – Parma

Durante la “stagione dei movimenti”, tra gli anni sessanta e settanta, l’antifascismo tornò al centro del dibattito politico e ideologico, diventando terreno di confronto e di conflitto tra le forze politiche tradizionali, i movimenti sociali e i gruppi della nuova sinistra. Negli anni delle mobilitazioni giovanili, infatti, la memoria della resistenza e la lotta antifascista – riprese con fini e modalità differenti durante l’intera storia repubblicana – si intrecciarono con l’antiautoritarismo, l’antimperialismo e l’anticapitalismo, sfociando – in seguito al clima determinato dalla “strategia della tensione” – in una critica radicale agli apparati di stato e nelle pratiche “dell’antifascismo militante”. Negli anni settanta, dunque, l’antifascismo determinò anche divergenze e linee di rottura tra i diversi soggetti politici, in una dialettica complessa tra continuità e innovazione, che travolse in un primo luogo l’identità culturale e ideologica delle sinistre. Il volume – che raccoglie i contributi del seminario La resistenza contesa (Parma, 5 ottobre 2002) – si propone di indagare queste tensioni, le diverse valenze e i nuovi contenuti assunti dal richiamo della resistenza antifascista. Un’analisi che privilegia la prospettiva fornita dai manifesti politici delle differenti forze, travalicando il campo della teoria politica e arricchendosi degli stimoli provenienti dallo studio dell’immaginario, dalle dinamiche generazionali e culturali, dai processi simbolici di identificazione e riconoscimento collettivo.

Testi di Marco Baldassari, Gloria Bianchino, Diego Melegari, Antonio Parisella e Andrea Rapini.

Interventi di

Arturo Carlo Quintavalle (Università degli Studi di Parma)

William Gambetta (Centro studi movimenti)

In collaborazione con
Comune di Parma – Assessorato alle politiche sociali
Libreria Fiaccadori

Tra il 1960 e la fine degli anni Settanta, i richiami alla Resistenza e all’antifascismo godettero di una rinnovata vitalità, tornando ad essere temi centrali del dibattito politico e ideologico.

Nella propaganda dei manifesti essi si espressero per lo più attraverso uno stesso universo simbolico: partiti tradizionali, nuovi movimenti e gruppi politici, infatti, condivisero e utilizzarono spesso le stesse modalità di rappresentazione dell’antifascismo storico e gli stessi schemi linguistici di relazione tra quest’ultimo e le mobilitazioni contemporanee. Simili furono anche i linguaggi e i modelli grafici per descrivere e caratterizzare l’avversario o per legittimare il proprio ruolo nella battaglia al “nuovo fascismo”. Un comune immaginario, dunque, al quale tutte le forze attinsero per rilanciare politicamente l’antifascismo e la memoria della Resistenza. Un comune registro simbolico che veniva utilizzato, però, per comunicare e promuovere parole d’ordine, pratiche di lotta e visioni ideologiche piuttosto differenti, sia all’interno della dialettica dei partiti tradizionali sia tra questi e i movimenti dell’estrema sinistra. Sui manifesti affissi nelle città, dunque, il contrasto tra elementi iconografici comuni e messaggi politici profondamente diversi emergeva evidente.

Ne sono un esempio i manifesti che si rivolgevano esplicitamente alle nuove generazioni che, solitamente, proponevano l’idea di una continuità tra il protagonismo giovanile nelle lotte antifasciste del passato e nei movimenti politici e sociali in atto: un legame tra passato e presente che veniva efficacemente sottolineato dall’accostamento dell’immagine dei partigiani del 1943-45 a quella dei nuovi giovani manifestanti.
Tuttavia, le varie forze politiche concepivano il passaggio dell’eredità della Resistenza alle nuove generazioni con finalità differenti.
Per le associazioni partigiane e i partiti dell’arco costituzionale, ad esempio, obiettivo delle mobilitazioni antifasciste giovanili doveva essere la difesa delle istituzioni repubblicane dai pericoli autoritari. Nei manifesti dei partiti della sinistra storica, inoltre, i valori della Resistenza venivano rappresentati come fondamento delle istituzioni democratiche e, allo stesso tempo, come qualcosa che, a partire da quell’ordinamento, doveva ancora essere compiutamente realizzato attraverso nuove e più avanzate riforme sociali e politiche: questa l’eredità politica propagandata, ad esempio, nel manifesto dei giovani socialisti o in quello del Partito comunista del 1965 o, ancora, in quello dell’Anpi di dieci anni dopo; in tutti, l’intreccio tra gli ideali resistenziali, la difesa della democrazia e le mobilitazioni giovanili emerge con intensità.

Le finalità politiche cambiavano radicalmente nei manifesti delle formazioni dell’estrema sinistra: in essi, infatti, trovava spazio soprattutto la volontà di recuperare le istanze di eguaglianza sociale presenti in parte del movimento partigiano e di denunciare quelle che venivano interpretate come continuità – di culture, leggi, istituzioni e, a volte, anche di persone – tra il vecchio regime fascista e la Repubblica democratica. Significativo è, a questo proposito, il manifesto del 1973 del Comitato antifascista “Mario Lupo” (realizzato in occasione di una manifestazione a ricordo del giovane militante di Lotta continua ucciso a Parma da un gruppo di neofascisti il 25 agosto 1972): il richiamo alla Resistenza – evidente anche nella scelta, per l’iniziativa, della data del 25 aprile – si legava allo slogan “Via la Dc dai cortei antifascisti”, rappresentazione secondo la quale l’eredità della lotta partigiana poteva compiersi solo con la rottura dell’unità dell’antifascismo costituzionale.
Infine, particolarmente interessante è il manifesto dei Giovani liberali del 1965, dove il lascito politico della Resistenza alle nuove generazioni – attraverso la consueta giustapposizione di “ieri” e di “oggi” – veniva identificato con un’identica “lotta per la libertà”, prima contro la dittatura fascista e ora contro il “pericolo” comunista.

Il dibattito politico negli anni Sessanta e Settanta si caratterizzò anche per la particolare attenzione rivolta ai conflitti che segnavano lo scenario mondiale, e che i nuovi movimenti elevarono spesso a simboli di una lotta generalizzata per la trasformazione radicale degli assetti di potere esistenti. L’antimperialismo e la solidarietà ai movimenti di liberazione dei popoli del “terzo mondo”, infatti, divennero alcuni dei tratti caratterizzanti dell’identità politica e culturale sia dei gruppi della nuova sinistra sia dei partiti tradizionali (in particolare dei loro settori giovanili). Contemporaneamente, la presenza nel contesto internazionale di vecchi e nuovi regimi autoritari (in Portogallo, Spagna e, dal 1967, in Grecia, per non nominare che quelli dell’Europa occidentale) accentuava anche in Italia la preoccupazione per le sorti delle istituzioni democratiche, considerate sostanzialmente fragili. Da più parti, infatti, si paventava una svolta autoritaria come possibile risposta alla nuova conflittualità sociale e al protagonismo dei movimenti di protesta.
Frequentemente, dunque, le forze politiche italiane interpretarono i movimenti antiautoritari e quelli di liberazione nazionale attraverso il filtro della memoria resistenziale: i richiami alla lotta clandestina contro la dittatura mussoliniana e alla guerra partigiana contro l’occupazione tedesca divennero riferimenti storici fondamentali per riconoscere legittimità politica ai movimenti di resistenza di altri paesi. Inoltre, le lotte contro eserciti stranieri o regimi autoritari venivano sovente interpretate come fasi particolari di un unico grande movimento di emancipazione internazionale.

Intorno a queste chiavi interpretative si costituì un intero immaginario ideologico. Il guerrigliero vietnamita poteva essere rappresentato come un partigiano italiano del 1943-45 e la politica bellica degli Usa come l’aggressione nazista durante la seconda guerra mondiale. Lotte tra loro molto diverse potevano essere unificate sotto la comune categoria di “resistenza” come, ad esempio, nel riferimento a Spagna, Vietnam e Congo presenti nel manifesto della Federazione giovanile comunista del 1965.
Il movimento contro la presenza americana in Vietnam e per la fine della guerra divenne uno dei massimi catalizzatori della protesta giovanile in tutto il mondo: la guerriglia dei vietcong, infatti, volta alla riunificazione del paese sotto un regime socialista, diventava il simbolo della possibilità di autodeterminazione di un popolo, nonostante la soverchiante prevalenza militare della superpotenza occidentale. Negli stessi anni, le vicende del Congo – dove, nel novembre 1965, un golpe aveva portato al potere Joseph-Desiré Mobutu, dopo un’aspra guerra civile seguita all’uccisione del leader nazionalista Patrice Lumumba – e quello di molti altri paesi del “terzo mondo” sembrarono sommare al concetto di “resistenza” anche quello di lotta per una reale indipendenza dal neocolonialismo politico ed economico.
I casi della Spagna del generale Francisco Franco e della Grecia “dei colonnelli” venivano invece rappresentati con le immagini classiche della repressione politica e affiancati, più o meno direttamente, al ricordo della dittatura fascista italiana.
Infine, particolare risonanza ebbe il sanguinoso colpo di stato in Cile che, l’11 settembre 1973, destituì il governo popolare di Salvador Allende eletto tre anni prima. Anche in Italia l’eco di quell’evento fu vasta e le mobilitazioni contro la dittatura militare di Augusto Pinochet accomunarono le diverse forze democratiche e la nuova sinistra. Ciò che colpiva era soprattutto l’analogia che si credeva di poter scorgere con la situazione italiana: in molti, cioè, temevano che ad una eventuale vittoria elettorale dei partiti di sinistra – accompagnata da una forte presenza dell’estrema sinistra nelle mobilitazioni sociali – potesse rispondere una svolta autoritaria. Naturalmente, il riconoscimento di una simile analogia amplificò ulteriormente la divergenza tra la sinistra tradizionale – in particolare il Partito comunista – e la nuova sinistra: mentre, il Pci di Enrico Berlinguer delineava la proposta di un “compromesso storico” tra i tre grandi partiti di massa (Dc, Psi e Pci) per respingere il pericolo autoritario, i gruppi di estrema sinistra insistevano sull’idea di un antifascismo fortemente connotato dalla lotta anticapitalista.

Spesso, nella propaganda sui temi della Resistenza e del movimento antifascista, partiti e gruppi utilizzarono metafore, figure e linguaggi tratti da un comune immaginario politico. Un codice simbolico che, per lo più, si richiamava immediatamente alle atrocità e alle ingiustizie del fascismo e del nazismo storici e rappresentava un efficace strumento comunicativo per identificare il proprio avversario politico. I riferimenti ai simboli nazifascisti, dunque, affollarono i manifesti di quegli anni per numerose finalità: denunciare il pericolo di una svolta autoritaria, smascherare l’attività eversiva neofascista, promuovere una campagna contro dittature militari o politiche imperialiste, difendere le istituzioni democratiche.
Una simile sovrapposizione tra presente e passato è immediatamente evidente in tutti i manifesti esposti come, ad esempio, in quello del Partito socialista per la campagna elettorale del 1972, nel quale il segretario del Movimento sociale italiano, Giorgio Almirante, veniva rappresentato con il ciuffo e i baffi di Adolf Hitler.
Più in generale, ad emergere era un’immagine stereotipata del fenomeno squadrista: il fascista in camicia nera, con fez, manganello, fascio littorio e manovrato dal potere capitalista (come nel manifesto anarchico in favore della liberazione di Giovanni Marini, un militante libertario condannato per la morte di uno dei neofascisti che lo avevano aggredito). Peraltro, la strategia violenta dei gruppi della destra radicale – con l’accentuarsi delle aggressioni, dei pestaggi e degli attentati – sembrò convincere partiti e movimenti democratici che sulla scena politica si ripresentasse lo squadrismo nero del 1921-1922, le cui radici sociali e culturali non parevano essere state del tutto recise nell’Italia repubblicana. La capacità identificante e mobilitante di un simile messaggio era enorme: all’incubo del ritorno del passato non ci si poteva opporre se non con una “nuova” Resistenza.
Tuttavia, anche in questo caso, le differenze tra i messaggi politici delle diverse forze furono nette. In particolare, nei manifesti prodotti dalla nuova sinistra, la politica del Msi e della destra radicale non veniva rappresentata solo come riproposizione del fascismo storico, ma soprattutto come strumento nelle mani del potere costituito, sia politico che economico. Il manifesto del 1975 disegnato da Telmo per il Partito di unità proletaria per il comunismo è significativo di questo intreccio: i simboli del Msi e della Dc apparivano come volti intercambiabili di uno stesso corpo, metà in orbace e metà in giacca e cravatta, la politica presentabile del “doppiopetto” sotto il quale si nascondeva il “manganello”. Dietro questo duplice volto, le figure di quello che il manifesto definiva “regime borghese”: il potere militare, giuridico, economico ed ecclesiastico.
La forza identificante dell’iconografia nazi-fascista era tale che il suo uso venne esteso anche alla denuncia di fenomeni ampiamente travalicanti la galassia del neofascismo o che, addirittura, erano ideologicamente contrapposti ad esso. In riferimento alla scena internazionale, ad esempio, un medesimo richiamo al nazismo veniva utilizzato nel 1967 dal Pci contro la guerra degli Usa in Vietnam e, l’anno dopo, dalla Dc nei confronti dell’Unione sovietica, in seguito all’occupazione della Cecoslovacchia. Se nel primo manifesto il tratto unificante tra nazisti e truppe americane sembrava essere quello della crudeltà nell’oppressione di un popolo, nel manifesto della Dc era soprattutto il tema dell’indipendenza nazionale ad essere posto in risalto.

Infine, ad essere sovrapposte al nazi-fascismo – divenuto ormai significante onnicomprensivo di tutti i “nemici” della democrazia – furono le Brigate rosse, responsabili di sequestri, attentati e omicidi di esponenti del potere politico, istituzionale ed economico. Un manifesto del Pci, ad esempio, insisteva sull’assoluta negatività del brigatismo e lo riduceva a crimine “contro la libertà di tutti”, legittimando di conseguenza l’intransigenza della quale il partito si era fatto portatore nelle trattative durante il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro, conclusosi con la sua uccisione nel maggio 1978.

Spesso, nella propaganda sui temi della Resistenza e del movimento antifascista, partiti e gruppi utilizzarono metafore, figure e linguaggi tratti da un comune immaginario politico. Un codice simbolico che, per lo più, si richiamava immediatamente alle atrocità e alle ingiustizie del fascismo e del nazismo storici e rappresentava un efficace strumento comunicativo per identificare il proprio avversario politico. I riferimenti ai simboli nazifascisti, dunque, affollarono i manifesti di quegli anni per numerose finalità: denunciare il pericolo di una svolta autoritaria, smascherare l’attività eversiva neofascista, promuovere una campagna contro dittature militari o politiche imperialiste, difendere le istituzioni democratiche.
Una simile sovrapposizione tra presente e passato è immediatamente evidente in tutti i manifesti esposti come, ad esempio, in quello del Partito socialista per la campagna elettorale del 1972, nel quale il segretario del Movimento sociale italiano, Giorgio Almirante, veniva rappresentato con il ciuffo e i baffi di Adolf Hitler.
Più in generale, ad emergere era un’immagine stereotipata del fenomeno squadrista: il fascista in camicia nera, con fez, manganello, fascio littorio e manovrato dal potere capitalista (come nel manifesto anarchico in favore della liberazione di Giovanni Marini, un militante libertario condannato per la morte di uno dei neofascisti che lo avevano aggredito). Peraltro, la strategia violenta dei gruppi della destra radicale – con l’accentuarsi delle aggressioni, dei pestaggi e degli attentati – sembrò convincere partiti e movimenti democratici che sulla scena politica si ripresentasse lo squadrismo nero del 1921-1922, le cui radici sociali e culturali non parevano essere state del tutto recise nell’Italia repubblicana. La capacità identificante e mobilitante di un simile messaggio era enorme: all’incubo del ritorno del passato non ci si poteva opporre se non con una “nuova” Resistenza.
Tuttavia, anche in questo caso, le differenze tra i messaggi politici delle diverse forze furono nette. In particolare, nei manifesti prodotti dalla nuova sinistra, la politica del Msi e della destra radicale non veniva rappresentata solo come riproposizione del fascismo storico, ma soprattutto come strumento nelle mani del potere costituito, sia politico che economico. Il manifesto del 1975 disegnato da Telmo per il Partito di unità proletaria per il comunismo è significativo di questo intreccio: i simboli del Msi e della Dc apparivano come volti intercambiabili di uno stesso corpo, metà in orbace e metà in giacca e cravatta, la politica presentabile del “doppiopetto” sotto il quale si nascondeva il “manganello”. Dietro questo duplice volto, le figure di quello che il manifesto definiva “regime borghese”: il potere militare, giuridico, economico ed ecclesiastico.
La forza identificante dell’iconografia nazi-fascista era tale che il suo uso venne esteso anche alla denuncia di fenomeni ampiamente travalicanti la galassia del neofascismo o che, addirittura, erano ideologicamente contrapposti ad esso. In riferimento alla scena internazionale, ad esempio, un medesimo richiamo al nazismo veniva utilizzato nel 1967 dal Pci contro la guerra degli Usa in Vietnam e, l’anno dopo, dalla Dc nei confronti dell’Unione sovietica, in seguito all’occupazione della Cecoslovacchia. Se nel primo manifesto il tratto unificante tra nazisti e truppe americane sembrava essere quello della crudeltà nell’oppressione di un popolo, nel manifesto della Dc era soprattutto il tema dell’indipendenza nazionale ad essere posto in risalto.

Infine, ad essere sovrapposte al nazi-fascismo – divenuto ormai significante onnicomprensivo di tutti i “nemici” della democrazia – furono le Brigate rosse, responsabili di sequestri, attentati e omicidi di esponenti del potere politico, istituzionale ed economico. Un manifesto del Pci, ad esempio, insisteva sull’assoluta negatività del brigatismo e lo riduceva a crimine “contro la libertà di tutti”, legittimando di conseguenza l’intransigenza della quale il partito si era fatto portatore nelle trattative durante il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro, conclusosi con la sua uccisione nel maggio 1978.

La contrapposizione tra partiti costituzionali ed estrema sinistra si faceva particolarmente esplicita nella differente analisi del rapporto tra lo stato e l’eredità politica dell’antifascismo. In questo senso, uno spartiacque decisivo fu rappresentato dalle inchieste giornalistiche sulla strage di piazza Fontana a Milano: in esse, infatti, l’attentato veniva interpretato come il tentativo di far crescere nell’opinione pubblica moderata la richiesta di un maggiore controllo sociale e di un ordinamento istituzionale più repressivo. L’ipotesi che dietro la strage ci fossero anche settori dei servizi segreti e delle gerarchie militari – conniventi con gruppi dell’estrema destra – comportò una profonda ridefinizione delle coordinate e delle pratiche di lotta della nuova sinistra, talvolta attirate anche sul terreno della violenza politica. La definizione “strage di stato” – utilizzata in un diffuso libro di controinformazione scritto da militanti e giornalisti democratici – divenne la formula convenzionale per interpretare quanto accaduto e quanto, ancora, stava accadendo. La bomba di piazza Fontana, infatti, fu la prima di una tragica serie che avrebbe segnato l’intero decennio successivo, da quelle di Brescia e del treno Italicus nel 1974 a quella di Bologna nel 1980. Questi attentati, inoltre, si inserivano in un clima di profonda tensione, nel quale si moltiplicavano anche le aggressioni neofasciste, gli episodi di provocazione e le voci di tentativi di golpe, mentre le indagini si mostravano incapaci di fare luce sui reali mandanti dello stragismo.
La “strategia della tensione” e le diverse proposte politiche con le quali contrastarla fecero emergere nuove divergenze tra l’antifascismo della sinistra storica e quello della nuova sinistra. Mentre la prima non mancava di fiducia nelle istituzioni democratiche e considerava l’attività eversiva circoscritta a settori deviati, l’estrema sinistra chiamava in causa lo stato repubblicano nel suo complesso, giudicandolo uno strumento nelle mani dei potentati economici. È questa lettura ad emergere, per esempio, nel manifesto disegnato da Guido Crepax per Soccorso rosso nel 1972: prodotto per una campagna a difesa dell’anarchico Pietro Valpreda – incolpato ingiustamente della strage di Milano – il manifesto definiva la “strage di stato” anche come “strage dei padroni”, cui si doveva contrapporre la “giustizia proletaria”, rappresentata da un pugno rosso scagliato contro un groviglio mostruoso di autorità protette dal potere economico.
Di tutt’altra natura, invece, era la lettura dei partiti della sinistra tradizionale: il manifesto del Pci stampato nel 1974 in occasione del 4 novembre, ad esempio, indicava nell’alleanza tra “popolo e forze armate” la “salvaguardia delle istituzioni repubblicane” e la Resistenza antifascista veniva assunta a simbolo del legame nazionale – si noti il tricolore che incornicia il manifesto – tra autorità militari e forze democratiche. La distanza dalle posizioni della nuova sinistra non poteva essere più evidente.

Infine, di particolare interesse è il manifesto della Dc del 1971 nel quale il partito di governo si auto-rappresentava come baluardo della “libertà” contro gli “opposti estremismi” identificati nel “comunismo”, connotato come “repressione”, e nel fascismo, indicato come “avventura”.

I diversi significati che partiti e movimenti affidavano alla memoria della Resistenza e dell’antifascismo si mostravano con la più intensa evidenza il 25 aprile, festa della Liberazione.
Nei manifesti dei partiti dell’“arco costituzionale”, l’identità tra i valori del movimento partigiano e le istituzioni della Repubblica era evidente nell’uso rituale del tricolore nazionale e nel duplice richiamo ai concetti di “liberazione” e “democrazia”. Tuttavia, all’interno di questo comune codice simbolico non mancarono le differenze: se per i partiti di sinistra gli ideali resistenziali dovevano concretizzarsi in azioni sempre nuove per la difesa e l’allargamento della democrazia repubblicana, i partiti moderati – in particolare la Dc – celebravano lo “spirito della Resistenza” come conquista già realizzata in un paese capace di garantire “libertà”, “pace e sicurezza”.
Al contrario, nei manifesti della nuova sinistra l’eredità resistenziale non si identificava con le istituzioni democratiche esistenti ma fungeva da riferimento storico ispiratore di lotte per una società diversa. Cogliendo l’occasione del 25 aprile per attaccare duramente la Dc e il neofascismo, essi si rifacevano alla Resistenza nei suoi caratteri di “guerra di popolo” – ad esempio con l’uso frequente di immagini di partigiani armati – e tracciavano una continuità tra la lotta partigiana e le mobilitazioni di lavoratori e studenti. In contrapposizione al tricolore nazionale, dunque, spiccava in questi manifesti l’immagine della bandiera rossa, attraverso cui i gruppi della nuova sinistra si autorappresentavano come portatori di universali valori di emancipazione, capaci di tenere insieme la Resistenza italiana del 1943-45 e la solidarietà “con i popoli rivoluzionari di tutto il mondo” (come affermava il manifesto del Movimento studentesco e del Movimento dei lavoratori per il socialismo del 1975).

Conclude il percorso un manifesto di Bruno Munari dei primi anni Sessanta, realizzato per il Circolo della Resistenza di Torino. La semplicità del messaggio grafico riassumeva la necessità di rendere costantemente viva ed attuale la memoria resistenziale. Attraverso la data simbolo del 25 aprile, infatti, la Resistenza veniva sottratta alla sua specificità storica per diventare essa stessa un “valore” da salvaguardare e rinnovare: il “sempre” che cancella l’anno 1945 riuniva in sé risolutezza e indeterminatezza, la ripresa dell’antifascismo storico e la sua rielaborazione con contenuti sempre nuovi. La forza ideale che questo manifesto ancora conserva appare inscindibile dalla complessità delle interpretazioni e dei significati che negli anni Sessanta-Settanta (e non solo) partiti e movimenti politici affidarono alla memoria della Resistenza e dell’antifascismo.

Ideazione e ricerca di Marco Baldassari, Margherita Becchetti, Nicola Brugnoli, William Gambetta, Ilaria La Fata, Brunella Manotti, Diego Melegari, Sabrina Michelotti, Marco Severo, Cinzia Zennoni

Testi di Margherita Becchetti, William Gambetta e Diego Melegari

Progetto grafico di Nicola Brugnoli e Giordano Maini

Organizzazione a cura di Margherita Becchetti e Ilaria La Fata

Archivi
Archivio privato di Massimo Giuffredi – Parma
Archivio privato di Enrico Maghenzani – Parma
Archivio storico comunale – Parma
Archivio storico della nuova sinistra “Marco Pezzi” – Bologna
Ateneo Libertario – Parma
Centro studi movimenti – Parma
Fondazione Archivio Manifesto Sociale – Roma
Istituto Gramsci Emilia-Romagna – Bologna
Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea – Modena
Istituto storico della resistenza e dell’età contemporanea – Parma

Un grazie a Fabrizio Billi, Umberto Bonomini, Letizia Del Pero, Massimo Giuffredi, Massimiliano Ilari, Enrico Maghenzani, Mario Palazzino, Antonio Parisella, Giuseppe Pattini, Roberto Spocci