Cessate il Fuoco

Descrivere la guerra, sognare la pace

Nel corso del Novecento, come altri movimenti di protesta, anche quelli pacifisti hanno utilizzato abbondantemente i manifesti come mezzi di diffusione delle proprie idee. Veloci da realizzare, poco dispendiosi ed efficienti nella propaganda di massa, i manifesti necessitano solo di una rete di attivisti disposti a disegnare, stampare e affiggere sui muri delle città i propri messaggi. Una forma di comunicazione, dunque, ampiamente frequentata prima dell’impero di televisione, internet e social network, che ancora oggi ci racconta l’immaginario politico di coloro che quei manifesti hanno progettato e diffuso, e quello di coloro ai quali sono stati indirizzati.

Tra la vastissima produzione iconografica contro la guerra, Cessate il fuoco espone alcuni manifesti prodotti in Italia nell’arco di un sessantennio, dagli anni dell’immediato dopoguerra, quando dilagava tra la popolazione la paura di un conflitto nucleare tra le due potenze Usa e Urss, ad anni più recenti, segnati dal susseguirsi di guerre regionali più o meno lontane, dal Medio Oriente ai Balcani, ma dalla dimensione internazionale, tanto per gli stati coinvolti quanto per le questioni sollevate.

L’ordine della mostra non è cronologico, né rispetto alla documentazione selezionata né rispetto ai conflitti cui essa si riferisce, bensì tiene conto dei differenti registri grafici con cui i movimenti pacifisti hanno raccontato e contrastato la guerra. La scelta dei manifesti ha dunque privilegiato il loro linguaggio, vale a dire la loro capacità di sintesi tra testo e immagine, tra slogan e rappresentazioni figurative, tra parole d’ordine e segni grafici.

Al di là dei caratteri specifici e dei contesti di ciascuna mobilitazione, infatti, il linguaggio di questi manifesti sembra il medesimo. Un linguaggio che affonda le proprie radici tanto in simboli e immagini della cultura religiosa, e particolarmente di quella giudaico-cristiana, quanto nelle forme espressive di alcune delle più importanti correnti artistiche che segnarono il Novecento.

Emergono in tal modo alcuni principali registri con i quali, negli anni, si è combattuta l’idea di conflitto armato: la guerra come incubi di cui liberarsi, i volti disperati delle sue vittime, la necessità di organizzare lotte per fermarla, le visioni serene di un mondo finalmente pacificato e i simboli di quella pace, segni di un altro mondo possibile.

 

 

Per i movimenti pacifisti che si sono battuti contro politiche di riarmo, missioni militari e conflitti armati, il problema è sempre stato quello di contrastare la propaganda dei propri governi nazionali, di organismi internazionali o di forze politiche ben più influenti sull’opinione pubblica. La tecnica utilizzata più spesso è stata quella del disvelamento, del mostrare cioè il vero volto della guerra, la sua orribile e feroce normalità fatta di perdite umane, devastazioni, abbrutimento di coscienze e smarrimento di ogni morale, sensibilità e tolleranza. In molti manifesti, dunque, la guerra è stata ritratta come un orribile incubo, l’essenza stessa del male, dal quale l’umanità si deve liberare.

Molte sono state le immagini utilizzate per rappresentare tale malvagità.

La più frequentata è stata senz’altro quella della morte, nella sua raffigurazione classica con il teschio e lo scheletro sterminatore. Non una morte serena o riscattatrice dai dolori della vita, e nemmeno una punizione divina che colpisce gli uomini per le loro bestemmie, bensì l’incarnazione più evidente delle mostruosità della guerra, la spietata falciatrice di vite umane.

A questa spaventosa raffigurazione se ne possono ricondurre altre, come gli scenari devastati dei campi di battaglia – nuovi inferni dove gli uomini si affrontano e combattono – o i feroci e mostruosi volti di coloro che hanno sostenuto le “ragioni” della guerra, siano essi capi di stato, leader politici o generali e ufficiali.

Nel mostrare l’inganno della propaganda bellica, poi, molti manifesti hanno utilizzato una sorta di sineddoche grafica, una parte per rappresentare il tutto: a un’arma, a un bombardiere, a un carro armato o a una bomba viene spesso affidato il compito di sintetizzare la guerra nel suo complesso e di ricordare che essa è prima di tutto violenza e distruzione.

Si colloca in questo modello l’ampio uso di fotografie dell’esplosione atomica di Hiroshima dell’agosto 1945, immagini ormai svincolate dal loro contesto storico che hanno assunto un significato universale, divenendo le icone stesse del dramma della guerra contemporanea. Come se quegli alti funghi atomici simbolizzassero la guerra per antonomasia, la distruzione di ogni vita e sentimento.

Oltre che con il suo volto mostruoso, la guerra è stata spesso raccontata attraverso le sue vittime: i giovani soldati caduti in battaglia, le stragi di civili innocenti, i reduci incapaci di dimenticare quanto hanno vissuto e gli orfani, le mogli e le madri privati dei loro cari. Anche in questo caso, l’obiettivo è stato quello di mostrare l’inganno della guerra “giusta”, “necessaria” o “chirurgica”. La guerra – sembrano dire questi manifesti – è dolore e infelicità per chi parte come per chi resta e, a testimoniarlo, sono i ritratti di coloro che l’hanno subita. I loro visi e atteggiamenti, infatti, spesso riservati e quasi timorosi, contrastano con la retorica bellica e sembrano avere il sapore del racconto vero e diretto, al quale è impossibile non credere.

Sono i reduci che per primi comunicano quelle sofferenze. Lo fanno con la loro espressività ma anche con i segni delle ferite, metafora dei tormenti indelebili della loro esperienza in battaglia. E dopo i soldati di ritorno dal fronte, sono le immagini delle loro madri e mogli ad essere rappresentate con frequenza nel corso del Novecento.

Archetipo visivo cui gran parte di questi manifesti si sono ispirati è la popolana di Giuseppe Scalarini pubblicata sul quotidiano socialista «Avanti!» nell’agosto 1914: una giovane vestita a lutto e affranta dal dolore, china sulla bocca di un cannone ancora fumante; senza dubbio uno dei disegni antimilitaristi più famosi del secolo scorso – e riproposta più volte anche dai successivi movimenti pacifisti – che in quella donna in nero racchiude in sé la condizione di sofferenza dell’intera società civile.

Altra immagine particolarmente frequentata è quella della vedova con in braccio il proprio figlio, nella quale la sofferenza della madre è amplificata da quella dell’orfano, vittima innocente di eventi che non comprende e che tuttavia non lo risparmiano. Una figura che, peraltro, ripropone una delle icone cristiane più tradizionali, quella della Madonna con in grembo Gesù, esaltando l’impatto del messaggio tanto sul piano emozionale quanto su quello dei valori culturali di riferimento delle società occidentali.

Infine, numerosi manifesti utilizzano le immagini delle stragi di civili, nelle quali i corpi di donne e bambini straziati dalle armi offrono di per sé la prova concreta della follia bellica. Uno schema di comunicazione che accentua la documentazione sulle atrocità per stimolare una reazione d’indignazione e repulsione.

Tanto negli slogan quanto nelle immagini e nella grafica, in molti manifesti pacifisti è spesso centrale l’esortazione alla mobilitazione politica, con l’obiettivo di spingere singoli individui, o più ampi settori sociali, a responsabilizzarsi di fronte agli orrori della guerra e, quindi, ad agire pubblicamente per contrastarla. In ognuno di questi manifesti, insomma, sembrano riecheggiare le parole di Andrea Costa del febbraio 1887, quando, davanti all’assemblea dei deputati, condannò la spedizione coloniale nel Corno d’Africa dicendo che «per un’impresa non nobile, noi non ci sentiamo di dare né un uomo né un soldo». E, infatti, gli slogan che accompagnano le immagini sono per lo più coniugati alla prima persona singolare o plurale – «Non in mio nome» – oppure adottano il verbo imperativo – «Firma per la pace», «Fermiamoli» o «Dissociamoci».

 Il meccanismo d’identificazione tra il manifesto e coloro che lo leggono e interpretano, viene poi spesso rafforzato visivamente da immagini che mostrano l’opposizione tra “noi” e “loro”, tra il fronte pacifista e quello bellicista: uomini e donne che si responsabilizzano contro i simboli stessi della guerra, bombe, armi e divise. Un contrasto non statico e immutabile ma dinamico ed efficace, nell’intento di richiamare all’impegno civile e all’azione diretta.Ciascuno di noi, insomma, può urlare la propria opposizione e agire perché si ponga fine alla guerra e, in questo senso, le metafore rappresentate sono le più classiche: mani e pugni che spezzano armi, manifestanti che si oppongono a soldati e missili, colombe e simboli di pace che fermano divise militari.

L’idea stessa di “marcia per la pace” prende le mosse dall’opposizione semantica al concetto di sfilata marziale. Come disse Aldo Capitini – animatore della prima manifestazione pacifista che collegò, il 23 settembre 1961, Perugia ad Assisi in un lungo corteo di 24 chilometri – il pacifismo e la nonviolenza non erano «inerte e passiva accettazione dei mali esistenti», ma segno della volontà di essere «attivi e in lotta, con un proprio metodo che non lascia un momento di sosta nelle solidarietà che suscita, nelle noncollaborazioni, nelle proteste e nelle denunce aperte».

Ai manifesti che hanno rappresentato la guerra con scenari apocalittici o con i volti delle sue vittime, se ne sono alternati altri che hanno immaginato un mondo senza guerre e senza eserciti, dove la convivenza tra i popoli è stata idealizzata in concreta e solidale fratellanza. Se nella denuncia degli orrori di battaglie ed esplosioni hanno dominato tinte cupe, segni violenti e metafore di morte e sangue, in questi la grafica si è fatta vivace, i colori brillanti e i paesaggi e le figure comunicano per lo più un profondo senso di serenità.

 Donne sorridenti e bambini spensierati che sembrano incarnare l’essenza dell’armonia tra umanità e natura sono stati tra i soggetti più rappresentati: bimbi che giocano, madri coi figli e giovani fanciulle cariche di cibo (simbolo di abbondanza, in opposizione alla fame e alla carestia trascinate con sé dalla guerra) non sono più, dunque, le vittime della ferocia bellica ma i protagonisti della costruzione di un mondo felice, poco importa se consapevolmente o meno.

In questi manifesti, inoltre, raramente sono comparse figure di uomini o giovani maschi, quasi che, per quanto disarmati, sorridenti o intenti al lavoro o a educare figli, potessero richiamare in qualche modo una potenziale virilità guerresca, e risultare dunque inefficaci nell’esprimere una radicale idea di “pace”. Al contrario, l’immagine di una giovane donna, per quanto armata – è il caso di numerosi manifesti italiani e stranieri per la fine della guerra in Vietnam – ha spesso incarnato, con la sua intrinseca gentilezza, l’armonia di un mondo pacificato.

 Sovente, poi, il compito di rappresentare una società senza guerre e violenze è stato affidato a paesaggi primaverili e a limpidi ambienti naturali con riferimenti espliciti alla tradizione religiosa, specialmente ebraica e cristiana: si pensi all’arcobaleno, alla colomba bianca o al ramoscello d’ulivo, così come ai prati fioriti, ai cieli azzurri o alle spighe di grano che hanno spesso evocato l’Eden, il paradiso terrestre ancora incontaminato dalla presunzione degli esseri umani o dall’egoismo dei potenti. Analogamente, anche la fratellanza tra gli uomini e la coesistenza tra le loro differenti civiltà e religioni è stata frequentemente rappresentata con un abbraccio, un girotondo o con l’accostamento grafico dei loro simboli, in altri tempi motivi di aspri conflitti.

Come altre forze politiche, anche i movimenti contro la guerra hanno rappresentato le ragioni della propria lotta, e della loro stessa esistenza, attraverso simboli che ne sintetizzavano identità e obiettivi. La comunicazione pacifista, cioè, ha utilizzato non solo messaggi screditanti i simboli dell’avversario – le insegne nazionaliste o gli emblemi del militarismo – ma anche icone evocanti, in modo chiaro e semplice, i propri princìpi e propositi. Alcuni di questi simboli, i più frequentati, sono diventati segni distintivi dell’identità del pacifismo internazionale.

Dalla cultura religiosa – soprattutto ebraica e cristiana – il pacifismo ha assunto tre dei suoi simboli più conosciuti: la colomba bianca, il ramoscello d’ulivo e l’arcobaleno. Tre segni che ritroviamo, uno dopo l’altro, nella Genesi, dopo il castigo del diluvio universale, per raccontare la riconciliazione di Dio con Noé. È una colomba, infatti – animale dalla natura dolce e mite – a portare al patriarca un fronda fresca d’ulivo quale prova della rinascita della terra dopo l’inondazione divina. Così come è un arcobaleno il segno della nuova sacra alleanza con gli uomini, segno destinato a riapparire per ricordare alle generazioni future il patto di pace con Dio.

Simboli religiosi che, nel corso del tempo, soprattutto nel secondo dopoguerra, hanno subito un veloce processo di secolarizzazione. Nel 1949, per esempio, è stato un disegno di Pablo Picasso, per un manifesto del Congresso mondiale dei partigiani della Pace, a fare della colomba un’icona emancipata dalla sua predominante dimensione mistica. Così come, nel 1961, la prima Marcia per la pace di Aldo Capitini adottò nella propria bandiera l’arcobaleno, i sette colori dell’iride con al centro la scritta “Pace”, bandiera che, in Italia, ha raggiunto la sua massima popolarità nel 2002, durante le mobilitazioni contro l’intervento militare in Iraq.

Un’origine laica e piuttosto recente, invece, ha avuto il più noto dei simboli della pace, creato dal designer britannico Gerald Holtom nel 1958, in occasione della prima Marcia di Aldermaston contro la guerra nucleare. Ispirato all’alfabeto semaforico, il logo è una combinazione delle lettere N (due braccia distese verso il basso, a 45 gradi) e D (un braccio verso l’alto e l’altro verso il basso) – a significare Disarmo Nucleare – racchiusa in un cerchio che raffigura il mondo. Senza copyright, semplice e veloce da riprodurre, dagli anni sessanta questo nuovo simbolo si è diffuso tra i movimenti pacifisti di tutto il mondo, nonostante il suo significato sia ai più sconosciuto.

LA MOSTRA È DISPONIBILE AL NOLEGGIO

testi di William Gambetta
progetto grafico di Giordano Maini
organizzazione a cura di Margherita Becchetti e Ilaria La Fata

archivi:
Centro studi movimenti – Parma
Fondazione Archivio del Manifesto Sociale – Roma
Istituto Gramsci Emilia-Romagna – Bologna
Casa per la pace “La Filanda” – Casalecchio di Reno (Bo)